medicina estetica

Come già detto tale ramo si interessa della chirurgia di formazioni  cutanee maligne, o supposte tali, che devono essere rimosse e dell’asportazione facoltativa di lesioni benigne o di altre che sono considerate come tali ma che debbono essere rimosse quali infezioni virali come verruche, condilomi, molluschi contagiosi o lesioni similcancerose o precancerose come il cheratoacantoma e le cheratosi solari o particolari quali il granuloma piogeno, spesso conseguenza di microtraumi locali.
Le difficoltà nel rimuovere una neoplasia cutanea dipendono dalla grandezza, dal tipo di lesione e dalla sede. Una piccola formazione ad esempio al naso è molto più diffide da togliere che una molto più ampia al dorso. Molte volte è necessario ricorrere a lembi cutanei per chiudere il difetto e naturalmente questo implica la possibilità di spiacevoli cicatrici.
Nelle lesioni francamente benigne invece bisogna sempre fare una accurata analisi se la rimozione comporta un effetto benefico o no, sia in senso funzionale sia estetico. Molte volte la cicatrice residua potrebbe essere più vistosa della lesione iniziale e pertanto la rimozione deve essere attentamente valutata volta per volta. Tra questo tipo di formazioni troviamo ad esempio i fibropapillomi peduncolati, le cheratosi seborroiche, gli xantelasmi e molti tipi di nei di tipo benigno.

La blefaroplastica è eseguita per ridurre l’eccesso cutaneo e/o le borse palpebrali. Non tutti hanno la necessità di rimuovere sia la cute che gli eccessi di grasso (borse). Spesso, specie per le palpebre inferiori, è necessario solo una delle due cose. Ogni ruga o piega intorno agli occhi non può essere rimossa con questa metodica e non è questo lo scopo dell’intervento! Deve perciò essere accettato il giudizio del medico chirurgo sulla quantità di cute che può essere asportata senza conseguenze per ottenere il miglior risultato possibile per quel particolare problema.
L’operazione viene eseguita in anestesia locale con infiltrazione in sede di piccole quantità di anestetico. L’intervento richiede nel complesso circa due ore per le palpebre superiori e circa due ore e mezzo per le palpebre inferiori.
Per la palpebra superiore, prima di eseguire l’incisione, viene valutato e disegnato l’eccesso cutaneo. Il disegno viene realizzato in modo che la cicatrice finale possa cadere in una normale piega cutanea. Nella regione laterale l’incisione, specie in un soggetto femminile, può curvare verso l’alto in maniera da sollevare leggermente l’angolo dell’occhio. Quindi la quantità di cute stabilita viene rimossa e l’eventuale eccesso di grasso asportato. Infine l’incisione viene chiusa con materiale di sutura molto sottile.
Per le palpebre inferiori, il taglio è eseguito a circa due millimetri dal margine ciliare parallelamente al margine palpebrale prolungandolo leggermente in basso oltre il canto esterno lungo una ruga già presente. La cute viene scollata delicatamente dai tessuti sottostanti. La quantità di grasso peribulbare erniato viene rimossa. A questo punto per evitare la caduta palpebrale  post-intervento può essere eseguita una cantopessi laterale che consiste nel saldare con filo non riassorbibile il tarso inferiore con il margine esterno periostale  dell’arcata orbitaria. Tale manovra che va fatta sempre quando vi è un sospetto di lassità palpebrale è comunque raccomandabile  in ogni caso sia come prevenzione sia, in particolare per la donna, per alzare leggermente il canto laterale che con il tempo tende ad abassarsi.
Quindi, e solo se necessario viene asportato l’eccesso cutaneo. Quindi la cute viene suturata con filo molto sottile.
In alcuni casi quando il grasso erniato è limitato e situato solo nella zona centro-mediale è possibile effettuare l’intervento per via trans-congiuntivale, meglio, in questo caso, eseguendo il taglio e l’asportazione del batuffolo adiposo con un laser chirurgico. Non si eseguono suture e la ferita, non visibile, viene lasciata rimarginare da sé.
In questo caso è possibile, vista la mancanza di tagli e suture esterni, eseguire un passaggio immediato di laser frazionato sulla palpebra per migliorarne l’aspetto.
Il paziente dopo l’intervento può tornare a casa meglio se accompagnato. Si raccomandano tre giorni di riposo fino alla rimozione dei punti di sutura che avviene in terza – quarta giornata. Il lavoro e le attività sociali saranno limitate per un periodo di circa dieci giorni, soprattutto causa la presenza di ematomi che però possono essere nascosti da occhiali a lenti scure. Dopo dieci giorni potrà essere ripresa l’attività sportiva così come il make-up. L’esposizione al sole diretta dovrà essere evitata per circa due settimane, poi sarà permessa solo dopo l’applicazione in loco di una crema a stick solare a protezione totale per almeno altri tre mesi.
La durata del risultato dell’intervento varia da individuo a individuo. In molti casi le borse palpebrali e l’eccesso di cute non recidivano, ma con il passare del tempo la cute diventa più lassa, più ridondante e potrebbe essere necessario in un tempo variabile tra i 5 e 10 anni successivi un’ulteriore riduzione della cute.
E’ doveroso aggiungere infine che spesso al giorno d’oggi si sente parlare di “ blefaroplastica (superiore) senza chirurgia” intendendo con questo, tecniche che, tramite macchinari diversi, a flusso di elettroni, a radiofrequenza, al plasma, provocano sulle palpebre (superiori) piccole incisioni che con il tempo danno una retrazione cutanea con diminuzione della cute in eccesso.
Si tratta di metodiche senz’altro poco invasive, del tutto ambulatoriali e veloci, ma il termine blefaroplastica è accettabile solo parzialmente essendo ristretto alla retrazione cutanea che si determina ma non include la totalità dell’intervento che comporta anche l’asportazione delle erniazioni adipose esistenti, senza la cui eliminazione l’occhio rimarrà pesante e stanco, senza citare il fatto che diventa difficile determinare a priori forme diverse  di intervento a seconda del tipo di palpebre, del sesso, maschile o femminile,  delle eventuali asimmetrie sempre possibili.
Pertanto sarebbe più giusto, forse, chiamare tali interventi semplicemente “tecniche di retrazione palpebrale (superiore)”.

La liposuzione è un intervento per l’asportazione degli accumuli localizzati di grasso Le più frequenti e tipiche zone di accumulo sono i “fianchi”, l’addome (non dovuto a rilascio della muscolatura), le cosce laterali (dette “saddlebags” o “calzoni da cavallerizzo”), le cosce interne, le ginocchia nella parte mediale. Meno frequentemente le cosce anteriori, i polpacci laterali e mediali, il doppio mento. Alcune zone, anche se apparentemente presentano un accumulo di grasso, sono assolutamente da evitare come ad esempio il gluteo specie nella sua parte inferiore, la piega sottoglutea, la coscia posteriore, il cavo popliteo, la zona pre e perirotulea, la zona precostale.
Merita puntualizzare che la liposuzione non è un intervento per risolvere la “cellulite”, che va affrontata con altre metodiche e non è una “scorciatoia” per dimagrire. Anzi è auspicabile che prima dell’intervento l’eccesso di peso venga eliminato con una appropriata dieta. La sua migliore indicazione è quando la o le zone da trattare sono ben delimitate e ben identificabili.
L’intervento viene eseguito in anestesia locale secondo la cosiddetta “tecnica a tumescenza”, sviluppata da un dermatologo, Jeffrey Klein, verso la fine degli anni 80. Dopo un accurato disegno della zona da trattare, questa viene anestetizzata e quindi infiltrata di abbondante soluzione fisiologica. Durante tale processo, e anche durante il successivo intervento, il paziente rimane perfettamente conscio, sveglio e collaborante. Una volta che la parte è stata anestetizzata si può iniziare la procedura che si serve di speciali cannule, rotonde in punta, di sottile diametro, dotate all’estremità di fori, che vengono introdotte tramite una piccola incisione nel sottocute della zona da modellare. Con movimenti di avanti e indietro si creano degli spazi nel quale poi aspirare il grasso. Restando sempre paralleli alla superficie cutanea ed alla zona muscolare sottostante, dopo aver eseguito una prima fase, che possiamo chiamare di sgrassatura, con cannule di diametro più grosso, si passa a cannule via via più sottili, per una rifinitura più precisa della zona. Questo è il momento più delicato, in cui si possono creare inestetici avvallamenti ed asimmetrie. Per ovviare a questo inconveniente è utilissimo, se non indispensabile, controllare l’andamento dell’intervento invitando il paziente a mettersi in piedi. Infatti, non sono sufficienti un accurato studio della zona, un buon disegno, una attenta suzione, una grande esperienza, per ottenere un buon risultato. Solo in posizione eretta è possibile, specie per certe zone, controllare l’andamento dell’intervento. E questo è particolarmente vero per le cosce laterali (le cosiddette “coulotte de cheval”). Non è infrequente, se non la norma, che la rifinitura finale venga eseguita in piedi. (E’ anche per questo che la liposuzione in locale potrebbe venir chiamata liposcultura.)
Finita una zona, si può passare con le stesse modalità e tecnica all’altra zona simmetricamente opposta.
L’esecuzione dell’intervento necessita di tempo, spesso alcune ore, specie per le “coulotte de cheval”, forse la più difficile tra tutte le zone che possono essere trattate, per la tendenza a formare asimmetrie ed avallamenti.
Alla fine dell’intervento viene sistemata una fasciatura antigravitazionale e quindi al di sopra una guaina compressiva da tenere continuamente per almeno una settimana. Tolta la fasciatura dopo circa una settimana, il paziente dovrà continuare ad indossare la guaina giorno e notte per ancora sette giorni. Alla fine della seconda settimana la guaina potrà venir usata solo durante il giorno per ancora una – due settimane. In tale periodo inizia la fase postoperatoria per riabilitare la parte quanto prima e per evitare che l’inevitabile ematoma che si è formato, tenda ad organizzarsi. Tale fase può essere svolta con diversi metodi: ultrasuoni, massaggi, pressoterapia, ionizzazione, laserterapia.
La liposuzione in locale se viene eseguita seguendo rigorosi criteri dà ottimi risultati e si è dimostrata pressochè priva di rischi. E’ bene ricordare a questo proposito che il fattore limitante dell’intervento non è tanto la quantità di grasso asportato, ma la quantità di anestetico usato. Così per evitare ogni pericolo di sovradosaggio è sempre consigliabile trattare una singola area per volta.
E’ bene citare che accanto all’intervento tradizionale è possibile eseguire la liposuzione servendosi di una cannula che emette dalla sua punta ultrasuoni (cosidetta UAL = Ultrasonic Assisted Liposuction), che con un processo di cavitazione “sciolgono” il grasso che viene poi estratto sotto forma di liquido oleoso. La tecnica, non nuova, permette di trattare ampie zone corporee, ma presenta alcuni inconvenienti tra cui un foro di accesso notevolmente più grande di quello della tecnica tradizionale dal momento che è necessario nel punto di entrata usare un protettore di plastica intorno alla cannula sia per far uscire il liquido oleoso sia come sfogo di calore per minimizzare il rischio di ustioni profonde, che rappresentano comunque un serio pericolo di questa tecnica.
Un’altra metodica un po’ più recente è la liposuzione al laser (cosidetta LAL = Laser Assisted Liposuction) che prevede una procedura a due tempi. Nella prima fase l’energia è distribuita al tessuto adiposo con una fibra ottica, con conseguente coagulazione degli adipociti e riscaldamento del tessuto sottocutaneo. In un secondo tempo il tessuto adiposo liquefatto è aspirato attraverso una cannula. La particolarità di questa metodica è data dal fatto che vi è, a differenza della tecnica tradizionale, una maggiore contrazione cutanea dovuta al riscaldamento del derma reticolare. Però presenta, oltre al maggior costo, dei punti deboli. Le fibre ottiche hanno un diametro molto sottile e l’energia laser è concentrata tutta sulla punta con il rischio di punti di iper-riscaldamento ed altri invece poco trattati anche perché, essendo le fibre fini e flessibili, è difficile controllare esattamente la loro posizione con possibilità colpire zone non volute. Il trattamento poi risulta lento per cui diventa laborioso per trattare larghe zone.
Un’ulteriore tecnica proposta è la liposuzione a getto d’acqua  o acqua-lipo ( cosidetta WAL = Water – jet Assisted Liposuction ) in cui una micro cannula viene inserita nella zona da trattare collegata ad un apparecchio da infusione pulsante di acqua il cui getto provoca il distacco delle cellule adipose che vengono poi riassorbite con cannule da tre millimetri.
Un’ultima tecnica da menzionare è quella della liposuzione a radiofrequenza (cosidetta RAL = Radiofrequency Assisted Liposuction). In questo caso vengono usati due elettrodi uno esterno ed uno interno, connessi tra loro da un manipolo. Quello interno distribuisce onde di radiofrequenza direttamente al tessuto adiposo e quindi all’elettrodo esterno, posto a contatto della cute sovrastante e che contiene un sensore termico in maniera da monitorare continuamente la temperatura cutanea durante il trattamento, così da assicurarsi che l’effetto termico benefico sia raggiunto ma senza superare la temperatura prestabilita per evitare rischi di ustioni. In questo caso raggiunto il limite termico il sistema automaticamente si spegne e si riaccende solo  dopo essere passati ad una parte meno calda o dopo aver atteso un po’ di tempo che la zona si raffreddi. L’elettrodo interno ha la capacità di agire anche come cannula aspirante, così contemporaneamente il tessuto adiposo viene riscaldato, sciolto e quindi aspirato. Il rialzo di temperatura, in questo caso uniforme e sicuro, crea le premesse, già note per la radiofrequenza, per una contrazione cutanea molto efficace, accompagnata da uno svuotamento della parte. Ciò allargherebbe le indicazioni della liposuzione anche a pazienti prima controindicati con cute molto rilassata.

Si parla molto di lipofilling o di trapianto autologo di grasso ma spesso ci si dimentica che per eseguirlo bisogna innanzitutto estrarlo da qualche parte e ciò comporta inevitabilmente un intervento più o meno piccolo di liposuzione, il che rimanda a quanto riferito su questo argomento.
Pertanto la prima cosa da domandarsi è se abbiamo una fonte di grasso sufficiente a disposizione per eseguirlo, perché talvolta la persona che ne avrebbe bisogno o che lo richiede  è così magra che la metodica è improponibile, anche perché bisogna subito rilevare che molto del grasso trapiantato, circa il 70% , viene riassorbito nel corso di qualche mese. Quindi ne abbiamo bisogno di più di quello che a prima vista serve e dobbiamo anche chiederci se abbiamo a disposizione altre zone  usufruibili in futuro per l’estrazione di ulteriore grasso a rimpiazzare quello che è andato perso.
Tolti questi limiti, che non sono pochi e non sempre sono messi ben in luce, il lipofilling rappresenta una ottima metodica per riempire zone avallate naturali o da causa chirurgica e iatrogena, per l’aumento volumetrico dei seni e dei glutei, anche se è necessario in questo caso molto materiale, e soprattutto per rivitalizzare parti del corpo come viso e dorso mani (cfr.), perché bisogna ricordare che oltre alla sua capacità volumetrica, ridimensionata però dal suo alto riassorbimento, il grasso contiene la più alta percentuale tra i tessuti di cellule staminali e pertanto il suo apporto in queste zone, quando avvizzite dall’usura e dal tempo, dona un ottimo ringiovanimento.
In tutte le zone il grasso va introdotto in sovrabbondanza, dato che gran parte scompare dopo un  po’, dando così un aspetto iniziale di sovra correzione, anche notevole, con i disagi estetici  che questo comporta, con rigonfiamento che perdura per un certo periodo e del quale il soggetto va avvisato.
Per il resto la metodica, se ben eseguita, è praticamente priva di reazioni avverse visto che si tratta di tessuto proprio.
Nelle sue linee essenziali l’intervento inizia, come già detto, con la sua estrazione tramite una liposuzione, dopodiché il grasso viene posto o su un filtro perché perda la sua parte liquida o centrifugato per ottenere la separazione immediata della parte siero ematica.
La parte liquida  in ogni caso viene gettata via ed il materiale così ottenuto viene travasato in siringhe e quindi introdotto tramite sottili cannule nella zona predestinata, ponendo attenzione ad iniettarlo fondamentale, sempre profondamente.
Si può comprendere che è un intervento eseguibile in anestesia locale ma piuttosto lungo, date le fasi di procedura.
Possiamo concludere che in pazienti ben selezionati, preparati ad un doppio intervento: estrazione e poi trapianto, con aspettative non miracolose ma peculiari e non ripetibili con altri materiali, il lipofilling è una metodica che dobbiamo prendere in considerazione.

La tendenza ad eseguire interventi sempre meno cruenti e sempre più mirati, la possibilità di avere risultati, una volta raggiungibili solo chirurgicamente, con tecniche mediche poco invasive, hanno portato all’incremento di lifting localizzati, quasi sempre in anestesia locale. Preceduti spesso da una microliposuzione della zona, sia per asportare il grasso in eccesso, sia per scollare i tessuti, i minilifting vengono effettuati con tagli praticati lungo linee nascoste pre e postauricolari con scollamento parziale della cute a cui segue una sospensione del platisma tramite plicatura ed infine l’asportazione solo della cute in eccesso. L’idea è quella di creare uno stiramento naturale senza eccessi e distensioni eccessive della cute, intervenendo solo quando necessario e quando tramite altre pratiche meno cruente non è possibile raggiungere lo stesso risultato.
Recentemente  sono stati proposti i cosiddetti lifting con fili di sospensione. Si tratta di fili dentellati, che introdotti a livello sottocutaneo, vengono  tirati e  fissati verso l’alto, in maniera tale che, agganciandosi nel loro percorso al tessuto profondo, possano sollevare in maniera antigravitazionale le zone interessate.
Usati per il viso e per il sopraciglio e via via perfezionati stanno dando buoni riscontri, anche se parlare di “lifting meccanico”, come viene spesso citato, è errato creando false aspettative.
Si tratta di un “effetto lifting”, di risultato per altro abbastanza temporaneo, anche se accompagnato da una buona rivitalizzazione cutanea.
Forse la soluzione migliore  è l’associazione di un minilifting classico con l’introduzione contemporanea dei fili, il che dà un risultato migliore ma soprattutto più duraturo, dal momento che in questo caso un metodo aiuta l’altro nel sospendere e tirare il tessuto.
Da notare che recentemente sono stati anche introdotti fili non dentellati  e non riassorbibili  per il lifting del collo che, dopo una liposuzione in anestesia locale della zona, vengono introdotti attraverso precisi punti, incrociati e poi tirati, dando un buon sostentamento della zona.
Da osservare che talvolta, accanto ad una perdita di tensione, con rilassamento cutaneo a cui si ovvia eseguendo uno stiramento con minilifting e/o con fili di sospensione, sussiste una perdita di volumi profondi che vanno integrati con l’aggiunta di sostanze di riempimento. Tale ristrutturazione andrebbe nel caso eseguita prima dell’esecuzione del lifting, perchè molte volte l’intervento stirando la cute ne aggrava e ne acuisce solo gli aspetti.
Talvolta si può constatare che un ripristino dei volumi  a livello zigomatico, dell’angolo orbicolare interno (cosidetto “tear trough”), della fossa canina, della fossa temporale, della guancia, possono ridonare un aspetto di naturale tensione, senza che poi vi sia bisogno dell’intervento di lifting.
Se per ottenere ciò una volta ci si poteva servire solo del proprio grasso (tecnica FAMI), con i limiti di reperibilità in persone molto magre e laboriosità del metodo, attualmente ci si può servire di una nuova categoria di sostanze, dette macroialuronici, cioè acidi ialuronici ad alto peso molecolare e disponibili in grandi quantità, atte ad essere usate per ristrutturazioni volumetriche (cfr anche “Volumetria dei seni”), che vengono introdotti profondamente con microcannule, con o senza anestesia locale o tronculare, nelle stesse modalità usate con il grasso (tecnica MAMI).

Il lipoma è una formazione benigna contenente tessuto adiposo che può svilupparsi a livello sottocutaneo praticamente in ogni zona del corpo, spesso in forma multipla. Sia pur lentamente tendono con il tempo a crescere e a rendersi visibili, sollevando la cute e diventando inestetici.
Il classico intervento prevede un taglio della lunghezza di due/terzi del diametro del lipoma, la sua spremitura, l’asportazione del grasso contenuto ed infine  la chiusura della incisione con punti di sutura. Ne risulterà una cicatrice residua che, sommata ad altre, in caso di lipomi multipli, provocherà uno spiacevole in estetismo. Per ovviare a questo inconveniente è possibile rimuovere tali neoformazioni servendosi della microliposuzione.
Dopo aver praticato una o più microincisioni, ciascuna di pochi millimetri, lateralmente al lipoma, si introduce una cannula molto sottile, cercando dapprima di rompere l’accumulo adiposo e quindi di aspirarlo. I punti di entrata sono così minuti che spesso non viene applicata alcuna sutura. La cicatrice residua sarà praticamente invisibile.

La tendenza ad eseguire interventi sempre meno cruenti e sempre più mirati, la possibilità di avere risultati, una volta raggiungibili solo chirurgicamente, con tecniche mediche poco invasive, hanno portato all’incremento di lifting localizzati, quasi sempre in anestesia locale. Preceduti spesso da una microliposuzione della zona, sia per asportare il grasso in eccesso, sia per scollare i tessuti, i minilifting vengono effettuati con tagli praticati lungo linee nascoste pre e postauricolari con scollamento parziale della cute a cui segue una sospensione del platisma tramite plicatura ed infine l’asportazione solo della cute in eccesso. L’idea è quella di creare uno stiramento naturale senza eccessi e distensioni eccessive della cute, intervenendo solo quando necessario e quando tramite altre pratiche meno cruente non è possibile raggiungere lo stesso risultato.
Recentemente  sono stati proposti i cosiddetti lifting con fili di sospensione. Si tratta di fili dentellati, che introdotti a livello sottocutaneo, vengono  tirati e  fissati verso l’alto, in maniera tale che, agganciandosi nel loro percorso al tessuto profondo, possano sollevare in maniera antigravitazionale le zone interessate.
Usati per il viso e per il sopraciglio e via via perfezionati stanno dando buoni riscontri, anche se parlare di “lifting meccanico”, come viene spesso citato, è errato creando false aspettative.
Si tratta di un “effetto lifting”, di risultato per altro abbastanza temporaneo, anche se accompagnato da una buona rivitalizzazione cutanea.
Forse la soluzione migliore  è l’associazione di un minilifting classico con l’introduzione contemporanea dei fili, il che dà un risultato migliore ma soprattutto più duraturo, dal momento che in questo caso un metodo aiuta l’altro nel sospendere e tirare il tessuto.
Da notare che recentemente sono stati anche introdotti fili non dentellati  e non riassorbibili  per il lifting del collo che, dopo una liposuzione in anestesia locale della zona, vengono introdotti attraverso precisi punti, incrociati e poi tirati, dando un buon sostentamento della zona.
Da osservare che talvolta, accanto ad una perdita di tensione, con rilassamento cutaneo a cui si ovvia eseguendo uno stiramento con minilifting e/o con fili di sospensione, sussiste una perdita di volumi profondi che vanno integrati con l’aggiunta di sostanze di riempimento. Tale ristrutturazione andrebbe nel caso eseguita prima dell’esecuzione del lifting, perchè molte volte l’intervento stirando la cute ne aggrava e ne acuisce solo gli aspetti.
Talvolta si può constatare che un ripristino dei volumi  a livello zigomatico, dell’angolo orbicolare interno (cosidetto “tear trough”), della fossa canina, della fossa temporale, della guancia, possono ridonare un aspetto di naturale tensione, senza che poi vi sia bisogno dell’intervento di lifting.
Se per ottenere ciò una volta ci si poteva servire solo del proprio grasso (tecnica FAMI), con i limiti di reperibilità in persone molto magre e laboriosità del metodo, attualmente ci si può servire di una nuova categoria di sostanze, dette macroialuronici, cioè acidi ialuronici ad alto peso molecolare e disponibili in grandi quantità, atte ad essere usate per ristrutturazioni volumetriche (cfr anche “Volumetria dei seni”), che vengono introdotti profondamente con microcannule, con o senza anestesia locale o tronculare, nelle stesse modalità usate con il grasso (tecnica MAMI).

I peeling sono sostanze chimiche che, applicate sulla cute, provocano una esfoliazione più o meno intensa. Si possono distinguere vari gradi di peeling: superficiali, medi, profondi a seconda del tipo e della concentrazione del prodotto usato.
I più adoperati sono i peeling superficiali, come ad esempio l’acido glicolico, il piruvico, il mandelico, l’acetilsalicilico che danno dei buoni risultati, specie se ripetuti, e permettono un post-trattamento con limitati disagi, tali da poter condurre una vita quotidiana nei giorni successivi all’applicazione quasi normale. Sono indicati per un “refreshment” del viso e del decolleté, dando una cute più liscia, più morbida e più luminosa, e per le macchie cutanee nel qual caso, se necessario, vengono adoperati localmente sostanze più forti come l’acido tricloroacetico.
Molto meno usati sono i peeling più profondi come quelli a base di fenolo. Infatti, anche se i risultati a distanza in questi casi possono apparire spettacolari, implicano un periodo di convalescenza molto lungo, con forti disagi da parte del paziente. Inoltre comportano la possibilità di avere complicanze post-intervento non sempre prevedibili e facili da risolvere.

Rendere più idratata, morbida, luminosa e liscia la pelle del viso ed eventualmente del collo  e del decolletè infiltrando direttamente prodotti a livello dermico-sottocutaneo, è sempre stata una aspirazione della medicina estetica. Già in passato l’uso di prodotti di cui si può citare la placenta od il silicio sono stati raccomandati a questo scopo con discreti risultati.
L’introduzione dell’acido ialuronico non come filler ma come materiale rivitalizzante ha cambiato i risultati in tale settore migliorandoli a tal punto da diventare il prodotto di riferimento intorno alla quale ruotano le altre sostanze, tra cui quelle citate od altre che se ne sono aggiunte, quali minerali, vitamine,  coenzimi od altro, che  possono già essere mescolate direttamente all’acido ialuronico ed iniettate  insieme a questo.
Le preparazioni si presentano in questi casi in forma più morbida e talvolta pressoché liquida rispetto a quelle per il riempimento.
La tecnica generalmente consiste nell’eseguire piccole punture ravvicinate a livello dermico profondo (“picotage”) ma può anche essere eseguita con punture “lineari” o a”reticolo”, distribuendo così la sostanza nelle zone che ne hanno bisogno.
La tecnica va eseguita, specie all’inizio, circa una volta al mese per tre – quattro sedute consecutive e poi successivamente ogni volta che se ne ravvisa la necessità.
Una metodica rivitalizzante di cui ultimamente molto si è parlato e che sembra dare ottimi risultati , è la cosi detta PRP (“Platelet Rich Plasma”) o “ arricchimento piastrinico plasmatico”, che consiste nel prelevare una certa quantità di sangue  in provetta, porlo in centrifuga,  prelevare poi  il plasma e per quanto possibile lo strato piastrinico che alla fine si è formato ed iniettarlo quindi a microponfi sul viso ed eventualmente collo e decolletè. La tecnica andrebbe ripetuta ogni due o tre mesi per alcune volte, ma gli schemi proposti possono anche variare.
Ancora più recente è la proposta di introduzione di fili riassorbibili di polidoxano o di copro lattone a scopo rivitalizzante. Introdotti a livello dermico profondo/sottocutaneo in numero variabile  ed in vari “pattern” danno con il tempo una buona ristrutturazione della parte trattata (viso, collo, decolletè ma anche braccia, addome)
I fili possono essere lisci, intrecciati, a “molla”, dentati, già pronti di ago o da introdurre in un ago cannula.. Non creano problemi se introdotti nel giusto spessore e profondità e rappresentano una metodica che può dare buone soddisfazioni con probabili ulteriori sviluppi.
Resta il fatto che, genericamente parlando, nessun trattamento di rivitalizzazione può dare un “effetto lifting”od una correzione delle grosse rughe, né un miglioramento di macchie o cicatrici presenti, come talvolta è richiesto, ma soltanto un miglioramento dell’aspetto cutaneo e questo va sempre spiegato per non avere false aspettative.

IL dorso delle mani è una delle zone che più mostrano, anche perchè quasi sempre scoperte e visibili, i segni del tempo: macchie, pelle avvizzita ed assottigliata (cosi detta “scheletrizzazione”).
Per correggere tali inconvenienti è possibile eseguire alcuni trattamenti che possono ridonare alla zona un aspetto più giovane ed attraente.
Le macchie possono essere trattate con peeling all’acido tricloroacetico e/o con laser specifici.
La cute può assumere un aspetto migliore con introduzione locale di sostanze varie: rivitalizzanti, acido ialuronico, acido polilattico, idrossilapatite di calcio, anche se non sempre con risultati all’altezza delle aspettative.
Forse il risultato maggiore si ha eseguendo un lipofilling del dorso delle mani asportando grasso sufficiente da un sito donatore e, dopo averlo trattato per pulirlo, rintroducendolo con microcannule nel dorso delle mani, previa una leggera anestesia locale.
La grande quantità di cellule staminali contenute nel grasso   sono sicuramente uno dei fattori del buon risultato anche se è possibile avere talvolta dei piccoli noduli di indurimento e delle zone di irregolarità.

Il capostipite dei filler è stato il silicone anche se la prima sostanza di grande efficacia, diffusione e sicurezza è stato il collagene. Con il tempo sono comparsi numerosi altri prodotti e nuovi ne appaiono continuamente, non sempre ben testati e tali da dare reazioni di intolleranza.
A grandi linee possiamo dividere tali sostanze in materiali temporanei o permanenti. Genericamente si può dire che ogni prodotto va usato dopo una attenta disamina del caso, valutandone i pro ed i contro e soprattutto, pur non potendo escludere ogni tipo di reazione, scegliendo quelli che, secondo la propria esperienza, appaiono i più sicuri.
A parte il riempimento volumetrico delle labbra, cui merita dedicare una spiegazione a sé, tipicamente i filler vengono usati per la correzione di rughe e depressioni del viso, ma una ottima indicazione è anche quella di aumento volumetrico di zone del viso che con il tempo si sono svuotate perdendo così tono e consistenza.
Una delle zone principali  da riempire è la cosi detta “tear trough” (“solco lacrimale”) che si trova tra lo zigomo e la ruga naso-labiale dovuta al scivolamento con il tempo della cute e del tessuto grassoso, accompagnato alla sua atrofia, verso il basso.
Tale solco non è rimediabile come si può pensare con un lifting anzi con questo ne viene altresì esaltato. Anche il solo aumento degli zigomi non fa altro che accentuarlo.
Il suo riempimento pertanto è quasi sempre il punto di inizio di una correzione volumetrica del viso e viene eseguita al giorno d’oggi, principalmente con  la cosi detta “windmill  technique” (tecnica “a mulino a vento”), dove tramite un unico punto d’entrata situato a livello della guancia, viene introdotto un filler volumetrico servendosi di una micro cannula introdotta profondamente a livello periosteo. A questa può essere accostata la  cosidetta “tower technique” o “tecnica colonnare” dove con un ago introdotto verticalmente  vengono inseriti profondamente boli di prodotto che come cuscinetti riempiono e sollevano la zona trattata.
A partenza da questo punto, non solo si può correggere la “tear trough”, dando immediatamente quasi una sensazione  di lifting, ma anche riempire la fossa canina, e quindi di fatto la ruga naso labiale, e poi lo zigomo vero e proprio. In più da qui si può raggiungere l’angolo della bocca in caso ce ne sia bisogno e anche correggere la cosi detta “jaw line” (“linea mandibolare”) per darle un maggiore effetto di linearità.
Il risultato globale è un piacevole miglioramento dei lineamenti con un gioco armonioso di luci ed ombre, senza cambi di espressione ed in ultimo senza interventi chirurgici.

Nel trattamento del labbro lo scopo è dare un giusto aumento volumetrico a chi ha un labbro poco voluminoso ed evidente, e di correggere il contorno a chi nel tempo ha perso tono, elasticità e definizione.
Numerosi sono stati i metodi proposti a tale scopo, alcuni non più adoperati, alcuni di difficile esecuzione e di dubbia riuscita, ma quelli più usati si servono di materiali analoghi a quelli utilizzati per il riempimento delle rughe.
La metodica tende a mettere in risalto il contorno del labbro, secondo una tecnica, “Paris lip”, già ben codificata da molto tempo, ridefinendolo ed eventualmente con piccole introduzioni nel versante interno, tecnica del “doppio strato”, a spingerlo dolcemente verso l’esterno. Spesso la metodica viene eseguita in “toto” al labbro superiore, dato che  questo  mostra più facilmente i segni del tempo o appare più sottile, mentre al labbro inferiore vengono trattati solo gli angoli esterni, il che determina una configurazione apparentemente più larga delle labbra ed un sollevamento degli angoli di quello superiore.

A parte la possibilità di aumentare il volume dei seni con il trapianto del proprio grasso, metodica che per altro presenta dei grossi limiti (cfr. lipofilling), un’altra scelta è la possibilità di usare come materiale di riempimento l’acido ialuronico. Iniettato nel seno può dare degli ottimi risultati estetici in particolare in seni piccoli che per natura, per gravidanza o per età, hanno perso volume e consistenza.
Attraverso punti di entrata piccolissimi e pertanto nel tempo invisibili, la sostanza può essere introdotta nei punti più necessari, dando forma e volume in maniera graduale ed uniforme.
Dal momento che l’acido ialuronico è una sostanza prodotta dal nostro corpo, non sono stati ad ora segnalate reazioni avverse e serie complicanze.
La correzione non è permanente e va ricostituita parzialmente dopo circa un anno e via via nel tempo. Questo può rappresentare un punto debole, ma anche un vantaggio se la correzione non dovesse piacere.
Per il seno, il metodo ha subito recentemente una certa battuta d’arresto per la presunta difficoltà da parte dei radiologi di diagnosticare un iniziale nodulo sospetto, data la non facile visione  dovuta ai “boli” di acido ialuronico presenti.
E’ chiaro che l’esecuzione dell’esame nel tempo sempre da parte dello stesso operatore, specie se esperto e dedotto della metodica, rendono la diagnosi certo  più difficile ma non impossibile.
Pertanto la polemica resta aperta ma è chiaro che fino ad un definitivo chiarimento, si deve tener conto di tali fatti.

Nonostante l’avvento delle metodiche al laser, la scleroterapia rappresenta a tutt’ora il “gold standard” per il trattamento delle varici, delle vene reticolari e delle teleangiectasie (“capillari”) degli arti inferiori.
La metodica consiste nella introduzione intravascolare, tramite iniezioni, di un “liquido sclerosante”, che attraverso una reazione infiammatoria, provoca nel tempo la chiusura del vaso. Di estrema utilità, prima del trattamento, è l’esecuzione di un esame doppler per meglio definire la situazione vascolare ed evitare errori di interpretazione.
Per le vene varicose e per grossi vasi refluenti è invalso l’uso in questi ultimi tempi della cosiddetta “schiuma”. Si tratta della trasformazione , tramite rapido mescolamento , di un normale farmaco sclerosante in una schiuma che iniettata dà risultati migliori e più rapidi rispetto al farmaco non trattato.
Da notare che la scleroterapia abbisogna di più sedute per raggiungere il risultato voluto, e tra una seduta e l’altra, c’è bisogno di tempo per il riassorbimento degli ematomi e dei segni infiammatori.

L’avvento della depilazione al laser e quello con la luce pulsata (IPL) è stato un importante passo avanti nel trattamento dei peli superflui. Il risultato dipende oltre che dal tipo di laser usato, anche dal pelo stesso e dalla zona da trattare. In ogni caso sono sempre necessarie più sedute, difficilmente quantificabili nel numero, per ottenere un risultato soddisfacente.

Il grande sviluppo della tecnologia laser in questi ultimi anni, permette di trattare con grande soddisfazione e senza danni collaterali i cosiddetti “capillari” del volto. Spesso sono necessarie più sedute, ma i risultati sono rapidi ed il trattamento è praticamente indolore.
Da notare che il laser vascolare rappresenta una ottima soluzione per la rimozione di quelli che vengono detti “puntini rossi” cutanei e che più propriamente  sono angiomi di tipo rubino e anche per quelle “macchie rosse a forma di ragno”, spesso insorte in breve tempo in particolare al viso, che vengono dette in forma più scientifica spyder angiomi.

La tossina botulinica può essere considerata la più grande “scoperta” in campo estetico dai tempi del collagene. Agisce provocando un indebolimento fino alla paralisi della muscolatura e tale funzione può essere usata in particolari distretti del viso per provocare non un completo blocco muscolare, come forse si voleva raggiungere agli inizi di tale tecnica, ma un rilassamento della zona trattata. Nonostante sia stata provata in varie parti del viso, la zona temporo-frontale resta la sua migliore indicazione. Il risultato è pertanto ottimo nel distendere le rughe frontali, glabellari e le”zampe di gallina”, provocando quello che si può dire un “lifting chimico” della parte. L’impianto viene eseguito con l’introduzione, tramite sottili aghi, di piccole quantità ben stabilite di tossina in particolari zone anatomiche che corrispondono ai muscoli mimici della zona. Il trattamento è pressoché indolore, non dà reazioni allergiche, e comincia a mostrare i primi risultati dopo tre – quattro giorni, per poi perdurare dai quattro ai sei mesi. Ripetendolo si può osservare che la zona migliora nel tempo sempre di più ed anche la durata del risultato si allunga. Si pensa che questo sia dovuto non ad una atrofia muscolare, come si era presupposto nei primi tempi, ma ad una perdita di “memoria” del movimento da parte cerebrale. Comunque anche dopo ripetute introduzioni e lunghi periodi di tempo, il trattamento si è rilevato privo di complicazioni e reazioni particolari.
E’ importante capire che la tossina botulinica non è un riempitivo, non agisce quindi sulla singola ruga, ma su una intera zona rilassandola dopo aver bloccato o ridotto il movimento di quella parte. Pertanto il risultato va osservato non sulla singola ruga ma in toto.
Come accennato molte altre zone sono state proposte per il trattamento: le sopralabiali, gli angoli della bocca, il collo, il decolté e per ultimo il seno cadente, ma non sempre i risultati  in tali parti sono così sicuri ed eclatanti come la zona temporo- frontale.

Un particolare uso della tossina botulinica è il trattamento della iperidrosi, in particolare quella ascellare e palmare. Consiste nella introduzione molto superficiale, tramite un ago molto sottile, di piccole quantità di farmaco in queste zone. Il trattamento è fastidioso a livello ascellare e più doloroso in quello palmare, dove anche la quantità di tossina necessaria è spesso maggiore. I risultati sono normalmente ottimi e sufficientemente duraturi, circa un anno, giustificando così il costo del trattamento, che date le elevate quantità di tossina che in questi casi devono essere usate, è abbastanza alto.
Di poca soddisfazione invece è la zona plantare dove i risultati sono spesso scarsi e non giustificano un trattamento così caro ed in questo caso doloroso.
Solo a livello ascellare in alternativa alla tossina botulinica, specie nel caso di breve durata o scarsa risposta della stessa, è possibile eseguire un trattamento chirurgico con  liposuzione locale, per così dire alla “rovescia, dal momento che in questo caso i fori di aspirazione della cannula vengono rivolti non verso il basso, come di regola, ma verso la superficie a cui segue un  “curettage” della parte, cioè un grattamento aggressivo del derma cutaneo con cucchiaio chirurgico. Tutto ciò nel tentativo di distruggere quanto più possibile le ghiandole sudoripare ivi presenti. Il successo del trattamento è molto alto, intorno ed  oltre il 90% e sopratutto è definitivo.

Anche se la maggior parte delle volte l’acne è un classico problema dell’età puberale, non è infrequente che permanga oltre questo periodo anche per lungo tempo o che insorga in età più adulta. In ogni caso pur guarendo prima o poi spontaneamente, rappresenta un grande handicap psicologico per le persone che ne soffrono e spesso lascia, una volta risoltasi, cicatrici anche molto visibili ed antiestetiche, che sono difficili da trattare e risolvere. Pertanto, se una volta era considerata una noia solo antiestetica e non una vera e propria malattia, se non in situazioni molto gravi, al giorno d’oggi è trattata come una vera e propria entità nosologica, meritevole sempre, a qualsiasi grado e livello, di una seria terapia. Molto è cambiato in questi ultimi anni a questo proposito. I presidi a nostra disposizione sono molto più efficaci e numerosi, permettendo di affrontare al meglio il problema, a seconda del suo grado di gravità. Si va da trattamenti di tipo locale, nell’acne lieve, a quelli per via generale, nell’acne di media gravità, fino ad arrivare in casi selezionati alla terapia con i derivati della vitamina A (“acido retinoico”). Possiamo così, in maniera alquanto incisiva, evitare il danno psicologico, prima, e quello successivo cicatriziale.

Gli esiti cicatriziali acneici rappresentano un difficile problema da risolvere, e comunque implicano sempre tecniche cruente e piuttosto invasive.
Per molti anni l’unico metodo efficace per poter migliorare gli esiti acneici è stato quello di spianare la pelle con un dermoabrasore, un apparecchio che si serve di spazzole rotative abrasive per dare uno spianamento cutaneo. E’ un sistema in cui, oltre all’abbondante sanguinamento durante l’intervento, dà risultati non sempre facilmente predittivi, dipendenti molto dalla manualità dell’operatore. Il pericolo di avere ipo o iperpigmentazioni, cicatrici ipertrofiche o cheloidee, infezioni, eritema persistente, è reale.
I tentativi eseguiti con l’applicazione di peeling chimici particolarmente profondi, danno risultati dipendenti da molte variabili: tipo di cute, preparazione, tecnica di applicazione, sostanza chimica usata e sua concentrazione. Seppur abile non sempre l’operatore è in grado veramente di predire il risultato finale. Macchie di iper o ipopigmentazione, eritema e differenza di colorito persistente con le zone circostanti sono problemi frequenti. E comunque i peeling non provocando una vera e propria abrasione cutanea non sempre possono spianare in maniera adeguata le zone cicatriziali.
L’avvento dei laser ed in particolare del Co2 ultrapulsato, ha portato ad un enorme sviluppo in tale trattamento. Oltre a non esserci sanguinamento durante l’intervento, permette di dare risultati, a lunga distanza, precisi e riproducibili prima impensabili. Il suo problema maggiore è rappresentato dalla  difficile gestione postoperatoria, per le lunghe e fastidiose sequele che si hanno, dovute essenzialmente al danno termico che si crea durante l’intervento. Il rigonfiamento, edema, postoperatorio è forte e prolungato, le linee di demarcazione tra zone trattate e non, sono evidenti anche nel tempo, e soprattutto vi è un vivo arrossamento della zona, che persiste per almeno tre mesi, ma spesso molto di più.
Per ovviare a tali inconvenienti si sono proposte metodiche alternative quali ad esempio l’Erbium:YAG laser, che creando un minor danno termico supera in parte questi problemi, comportando una minore sequela di effetti collaterali postintervento, a scapito però del risultato, dal momento che la sua azione di abrasione è più superficiale. Non possedendo inoltre un potere coagulativo, vi è un fastidioso sanguinamento durante il trattamento.
Un altro metodo è un sistema non laser, definito “coblation”, da “cool-ablation”, cioè ablazione a freddo. Si tratta di una tecnica elettrochirurgica che permette una abrasione abbastanza profonda, controllata e precisa, con un danno termico minimo al tessuto, ma sufficiente comunque a creare una emostasi locale tale da non dare sanguinamento durante l’intervento. Con tale metodica, data la scarsa demarcazione che si ha con le zone vicine non trattate, si possono operare, come con il laser Erbium e a differenza del laser Co2, anche singole zone, dette unità estetiche, del viso. La guarigione è piuttosto rapida, circa due settimane, così come il periodo di arrossamento postintervento, circa 3 – 4 settimane, permettendo così di riprendere una vita normale in tempi ragionevoli.
Resta da dire che ognuno di questi trattamenti è comunque un intervento pesante, che abbisogna molto spesso di sedazione  od anestesia generale o comunque, nel caso di piccole zone, di abbondante anestesia locale. Inoltre necessitano di una attenta e precisa serie di medicazioni postintervento e di cure ed indicazioni anche a lunga distanza. Vanno eseguiti in periodo invernale, lontano mesi da forti esposizioni solari e quindi programmati con accuratezza. Pertanto non sono interventi da prendere con superficialità e abbisognano di una buona motivazione personale per il sacrificio che comportano, dato l’allontanamento per un periodo più o meno lungo dalle normali attività e di un tempo ancora più lungo di precise indicazioni da seguire, per la protezione della pelle e contro l’esposizione solare anche casuale.
I risultati comunque sono soddisfacenti, anche se è difficile far scomparire completamente le cicatrici molto profonde. E’ pertanto sempre meglio cercare di prevenire la loro comparsa, trattando l’acne per tempo.
A parte le cicatrici acneiche tali metodiche, con l’esclusione della dermoabrasione meccanica, sono state anche proposte per il ringiovanimento del viso.
I peeling profondi, quali quelli al fenolo, spesso eseguiti in sedazione, possono dare splendidi, ma non sempre predittibili, risultati.
Il Co2 ultrapulsato da ottimi risultati, ma l’intenso eritema postoperatorio, come già visto, è molto lungo.
L’Erbium laser è molto meno impegnativo dal punto di vista postoperatorio, ma i risultati a distanza non sono così evidenti.
La “coblation” è un buon compromesso tra i due tipi di laser, ma anche questa abbisogna di un periodo di convalescenza non lungo, ma comunque impegnativo.
Riassumendo, a differenza del trattamento delle cicatrici acneiche dove l’abrasione cutanea è l’unico metodo efficace proponibile, è difficile, per il ringiovanimento del volto, far accettare il sacrificio che tali metodiche impongono, sommate poi a tutte le incognite che questi interventi  comportano, e che invece vengono accettati in caso di esiti cicatriziali, data la loro non alternativa.
Così, dopo i primi entusiasmi, il loro uso per il ringiovanimento del volto è diventato più oculato e più raro, preferendo metodiche meno invasive, come ad esempio peeling più superficiali, microdermoabrasioni con cristalli di corindone (che possiamo definire più un “gommage”, che una abrasione vera e propria), il “needleing” con il derma roller,  l’uso di filler, di rivitalizzanti e autorivitalizzanti, di ristrutturanti,  e della tossina botulinica oppure più invasivi ma mirati come i minilifting.

Ma il campo , ancora in piena evoluzione e ricco di grandi promesse, è quello del ringiovanimento del volto tramite sistemi non ablativi, quali la radiofrequenza, il primo ad essere stato impiegato, la luce pulsata,  alcuni tipi di laser con azione di stimolazione epidermica e dermica ed infine quelli frazionati, più profondi, questi ultimi forse il miglior compromesso per avere un buon risultato di “resurfacing” con minimi fastidi postintervento per il paziente.